PELLEGRINO ARTUSI..... |
I TESTI LETTERARI |
ARTUSI LETTERATO |
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ARTUSI COLTO E
LETTERATO LA LETTERATURA L'ottocento letterario italiano è caratterizzato dal diffondersi del
romanticismo. A tale movimento presero parte alcuni giovani scrittori come
Berchet e Pellico, successivamente anche il grande Manzoni.
Giosué
Carducci (1835-1907) ...Trascorse l'infanzia e in parte la fanciullezza nella selvaggia
solitudine della Maremma...studiò poi a Firenze e a Pisa e si laureò in
lettere. |
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ARTUSI,
PRIMA E OLTRE LA GASTRONOMIA
Diceva Baudelaire nei suoi Diari intimi che
non c'è "niente di più bello del luogo comune", forse anche
perchè, come dirà anche Stevenson, i luoghi comuni possono vantare
un'innegabile parentela con " grandi verità poetiche". Sarà anche vero, sicuramente è rassicurante, se
non confortante. Fatto è che si fatica a far uscire da un clichè
una situazione, un personaggio, una volta che un'immagine gli
si sia cucita addosso come una seconda, più vera natura. Così,
come è scontato che l'attesa sia sempre angosciosa, che il cuore
sia straziato dal dolore, che il fascino sia irresistibile,
è inconfutabile che uno che abbia i capelli rossi sia di animo perverso.
Al di fuori dell'ambito retorico e stilistico, il meccanismo è
esattamente lo stesso, per cui come si fa fatica ad immaginare un Leopardi
tutt'altro che "in un perenne ragionar sepolto", così non è
facile pensare ad un Artusi come ad uno che si sia interessato ad altro
che non sia un mondo di salse, intingoli e fornelli, al punto da farli
diventare l'emblema stesso del proprio "piccolo mondo", la cifra
di un'esistenza strapaesana di bonaria saggezza borghese. Eppure, proprio
l'Artusi era questo ma anche altro, anzi altro prima di questo e la
sorpresa sarà davvero grande nel constatare che era stato ben altro
quello cui aveva chiesto la fama prima di imboccare con La scienza in
cucina e l'arte di mangiar bene (1891) i sentieri della gloria del
paradiso dei buongustai. I lettori oggi faticheranno a immaginarlo ma è
proprio così: tra il 1878 e l'81, don Pellegrino s'era addirittura
avventurato per i sentieri della divulgazione letteraria con due
"oneste" (proprio nel senso etimologico) fatiche, dedicate la
prima al Foscolo e la seconda a Giuseppe Giusti, di cui aveva pubblicato
trenta lettere con convenienti annotazioni, entrambe presso l'editore Barbèra
di Firenze. Se ci si chiede se siffatte opere possano ancor oggi
interessare a un qualche pubblico, la risposta è senz'altro no, o almeno
che si potrà trattare di un pubblico molto limitato, di cultori ed
estimatori dell'autore, e che l'esperienza della loro lettura sarà
proficua solo per chi si sia convenientemente preparato. Oggi come oggi,
per sapere qualcosa di Foscolo non abbiamo certo bisogno della biografia
approntata da don Pellegrino, ancorchè sia confezionata con scupolo e
l'autore ci abbia informato nella prefazione che il suo intento è stato
quello di ammannirci "una narrazione particolareggiata ne' suoi
episodii, spassionata ne' giudizii, fatta pianamente alla buona e alla
portata di tutti" della vita del vate di Zacinto. Il fatto è che l'Artusi, che pure nelle
Annotazioni alle lettere del Giusti si rivela a tratti acuto e bonario,
nella Vita non s'allontana dal tono e dal piglio di un trombonesco
professore d'antan, come forse avrebbe ambito essere ma non era. "Alla buona e alla portata di tutti" e
per di più "spassionata ne' giudizii" è, infatti,
un'indicazione che riflette piuttosto un'intenzione che un esito, un
progetto destinato a restare nella penna, rivelandosi una sorta di ingenua
captatio benevolentiae, una carta di credenziali, per un lavoro
che, seppure sapido di molta erudizione, a stento si impenna e disbroglia
dai contorcimenti di uno stile farraginoso, col risultato di dar vita ad
una narrazione che procede asmaticamente e ha bisogno di puntellarsi a più
riprese su molte oneste e convenienti citazioni per pervenire alla sua
meta. Il lettore può misurare il risultato dal contrasto
tra lo stile "disadorno" invocato programmaticamente nella
prefazione e la successiva ammissione che "chiunque propongasi di
tesserne (cioè del poeta dei Sepolcri) imparzialmente la storia,
ne ritrarrà sempre e con profitto una grande e mirabile figura". In
effetti, la figura del Foscolo è tale da non lasciare neppure al nostro
don Pellegrino la possibilità di non restarne contagiato, cosicchè
appare, se non giustificabile, almeno comprensibile la profluvie
aggettivale e verbale che va progressivamente sommergendo la trama
narrativa, che pure onestamente ripercorre l'esperienza umana e letteraria
del soggetto dalla nascita e alla morte con appendice di testi e commenti
alle succitate opere, sotto una coltre compatta di orpelli. Sentite, ad esempio, come l'Artusi critico-biografo
chiama in campo l'episodio che diede origine ad uno dei più celebri testi
del poeta:"Nè anche il culto delle vergini Muse era da lui negletto
ché, colto il destro di una sventura toccata ad una bella, illustre e
spiritosa dama, Luigia Pallavicini, la quale trasportata da un focoso
destriero che cavalcava a diporto sulla riviera di Sestri, cadde e rimase
presso che estinta"; e ancora il modo stesso come è ritratto lo
scrittore: "di costituzione sanguigna-biliosa-melanconica, aveva Ugo
Foscolo sortito dalla natura quel temperamento misto che, per l'abbondante
secrezione degli organi riproduttori, è stato da qualcuno distinto col
nome di temperamento genitale perchè gl'individui che lo
posseggono sentonsi trasportati ai piaceri erotici"; e infine le
calde considerazioni conclusive al libro:" Io lo addito ai giovani
come modello di quelle virtù che possonsi da essi imitare, imperocché se
l'eletto ingegno, il genio e il coraggio sono doti della natura, l'altezza
d'animo, il disinteressato amore di patria, la fermezza e costanza nei
principii, la dignità e magnanimità del carattere e l'onoratezza, sono
frutto più che d'altro, dell'educazione e dalla nostra volontà
dipendono". La situazione non cambia granché nel commentario:
diligentissimo e accurato, ripercorre il testo col doveroso spirito di
servizio, che lo spirito dei tempi impone, ma non sa rinunciare al suo
solito armamentario retorico ricavato dai depositi di un attardato
classicismo, che il soggetto stesso, I Sepolcri, generosamente
comporta, per cui è giocoforza rassegnarci ad un'orgia lessicale degna
del padre Cesari con dovizia di bellurie sintattiche e stilistiche e
pedanti sottigliezze da cruscante, come là dove sente la necessità di
precisarci che "l'articolo alla innanzi a terra, usato invece
delle preposizioni nella, sulla è modo più elegante ed
efficace" e più avanti di informarci dettagliatamente intorno a
natura e abitudini dell'ùpupa, senza dire della minuziosità esplicativa
in materia di storia e mitologia. Artusi è così: una miniera di nozioni
e riflessioni, che dai territori propriamente letterari investono cultura
e società, rivelandoci un autore sorprendentemente eclettico e duttile,
un "tuttologo", che non solo freme di sacro sdegno per l'incuria
in cui versano i cimiteri ("sembrano serpai anzichè il sacro asilo
dei morti"!) e contesta "l'ipotesi che l'uomo sia derivato dai
bruti, opinione sostenuta da molti e valenti naturalisti" (con buona
pace di Darwin e seguaci) ma s'avventura perfino sui territori pericolosi
della critica sociale deplorando "il grave torto" di "aver
lasciata incolta la donna e di non educarla in modo che possa governare
gl'impeti del cuore" e quando c'è da dir la sua intorno al
"vento democratico" che minaccia le strutture stesse della
società non si fa scrupolo di condannare la cecità della "potenza
popolare" che "spinta da passioni disordinate tende a
trascendere " diventando" istrumento inconscio dei furbi che
cercano di volgerne i generosi slanci a profitto proprio". A non volerla del tutto condannare, l'opera qualche
pregio lo rivela oltre che nella sua onestà compilatoria e nell'intento
divulgativo che la regge, soprattutto nel suo lasciar intravedere qualche
scintilla di presaga vivacità laddove i versi offrono lo spunto per
puntare su quegli aspetti del vivere "materiale" che poi daranno
all'autore la fama più vera e duratura. Un esempio per tutti, dove,
commentando i versi 126-127 ("e che sedea a libar latte" ),
Artusi si diffonde sui riti relativi alla sepoltura: " I Gentili
facevano libazioni sui sepolcri e massime nelle cerimonie dei funerali. A
ciò veniva usato, secondo il rito, l'acqua, il vino, l'olio, il latte e
il miele. Se ne riempiva una coppa e dopo aver gustato il liquido od
appressato soltanto alle labbra si soandeva tutto. Avanti di fare alcuna
libazione obbligati erano quelli che le offerivano a lavarsi le mani ed a
recitare alcune formole di preghiere. L'uso dé banchetti funebri non è
ancora scomparso del tutto in alcuni luoghi d'Italia. Ne abbiamo traccie
nel contado di Valdichiana e in qualche parte della campagna romagnola.
Ivi si usa apparecchiare anche pel defunto; e dopo averlo piagnucolato e
rammentato spesse volte con tenerezza, uno dé commensali mangia la
porzione di minestra scodellata per lui". Come sottrarsi alla
tentazione di untuire attraverso un simile excursus il compiacimento
goloso e bonario dell'autore della Scienza in cucina che poi verrà ?. In questa luce acquista un curioso risalto il riconoscimento della qualità della biografia foscoliana del Correr "condita di buona e copiosa critica letteraria". Se è vero che certi tic espressivi rivelano un carattere non c'è dubbio che qui c'è davvero una spia significativa. La letteratura, per chi non l'avesse ancora capito, è per l'Artusi un fatto fisico, un manicaretto da ammannire e assaporare, "condito" con gli intingoli più convenienti di una succosa retorica. Il guaio è che queste cose l'autore le andava dicendo in un mondo in cui c'era chi, come mastro Geppetto, il paiolo l'aveva soltanto dipinto sulla parete e per mangiare s'accontentava di torsi di cavolo e bucce d'arance come i monelli di Aci Trezza. Ma si sa, lui, l'Artusi, il figlio del droghiere, poteva permetterselo: non per niente, le sue scelte le aveva ben fatte e si era convinto che a tener a freno e dirigere gli istinti della plebaglia giovasse solo e grandemente "il patriziato". Prof. Vincenzo Guarracino |